Blog Archives - Ludovico Palma Nutrizionista

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16 Ottobre 2025

Con l’arrivo dell’autunno, le castagne tornano protagoniste della nostra alimentazione. Questo frutto antico, spesso sottovalutato, è invece fonte di energia, fibre e micronutrienti ed inoltre molto versatile in cucina. 

In questo articolo vediamo insieme le proprietà nutrizionali, i benefici per la salute e come inserirle correttamente in un’alimentazione equilibrata.

Castagne: cosa sono?

Le castagne sono il frutto dell’albero di castagno (Castanea sativa), diffuso in molte regioni italiane e appartenente alla famiglia delle Fagacee, lontano parente di quercia e faggio. 

Questi frutti sono delle noci particolari in cui il materiale di riserva è costituito da carboidrati e non da grassi. Così, a differenza della frutta secca come noci o mandorle, le castagne hanno un profilo nutrizionale molto più simile ai cereali: sono infatti ricche di carboidrati complessi e naturalmente prive di glutine. In particolare, le castagne hanno un ottimo contenuto di amido, anche superiore alle patate, oltre che zuccheri semplici come glucosio, fruttosio, raffinosio e lo stachiosio. Questi ultimi due possono fermentare nel colon e la cui presenza può spiegare i fenomeni di flatulenza che alcuni associano al consumo di castagne. Per questo motivo chi segue una dieta LOW FODMAP dovrà evitare questo frutto oppure consumarlo di rado ed in piccole quantità. 

Valori nutrizionali (per 100 g di prodotto fresco)

  • Calorie: circa 165 kcal
  • Carboidrati: 36 g
  • Zuccheri: 8 g
  • Fibre: 5 g
  • Proteine: 2–3 g
  • Grassi: 1,5 g (quasi tutti insaturi)
  • Vitamine: Vitamina C, B1, B2, B6, acido folico
  • Minerali: Manganese, rame , potassio, magnesio, ferro 

La cottura delle castagne aumenta leggermente l’apporto energetico che per le castagne può arrivare a circa 250 kcal.

Benefici per la salute

1. Energia naturale e sazietà

Grazie al loro contenuto di carboidrati complessi, amido su tutti, le castagne forniscono energia a lungo termine. Sono ideali come spuntino autunnale o in sostituzione del pane nei pasti principali.

2. Fonte di fibre per l’intestino

Le fibre contenute aiutano a regolarizzare il transito intestinale, migliorano la digestione e contribuiscono al senso di sazietà.

3. Alleate del sistema nervoso

Le vitamine del gruppo B (soprattutto B6) supportano il corretto funzionamento del sistema nervoso e possono aiutare a contrastare stanchezza e stress.

4. Amiche del cuore

Grazie al contenuto di grassi “buoni” e di potassio, favoriscono la salute cardiovascolare. 

Si possono mangiare se si è a dieta?

Assolutamente sì, ma con moderazione. Le castagne sono più caloriche rispetto ad altri frutti, ma se consumate nelle giuste quantità (circa 4–5 per uno spuntino), possono far parte tranquillamente di un piano alimentare equilibrato, anche ipocalorico.

Chi segue una dieta senza glutine può consumare questo frutto in tutta sicurezza. Tuttavia, le persone con diabete o insulino-resistenza dovrebbero prestare attenzione alle porzioni, in quanto le castagne hanno un impatto medio sull’indice glicemico.

I soggetti allergici devono invece prestare più attenzione per la possibilità di cross-reazioni a causa di alcune proteine presenti nel frutto. In particolari persone allergiche al lattice e polline.

Come consumarle ?

Le castagne possono essere consumate:

  • Arrostite (caldarroste)
  • Bollite
  • Sotto forma di farina di castagne, perfetta per dolci e pane
  • In zuppe, minestre o piatti autunnali
  • Secche, si possono utilizzare in diverse preparazioni ma sempre prima reidratate e cotte. 

Se si vuole dimagrire il consiglio è di evitare l’abbinamento ad altri alimenti molto calorici, come formaggi o dolci, per non eccedere con le calorie.

Ecco alcuni esempi di ricette originali che potrebbero essere utilizzate anche a dieta:

  • Insalata autunnale con castagne, zucca e feta
  • Frittata proteica con castagne, albumi e spinaci
  • Pollo in crema di castagne e yogurt greco
  • Muffin proteici con farina di castagne e proteine in polvere

In sintesi

Le castagne non sono solo un piacere della stagione autunnale, ma anche un alimento nutriente e benefico. Se inserite nel modo corretto all’interno della dieta, possono diventare un’ottima fonte di energia, fibre e micronutrienti.


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8 Settembre 2025

Le emorroidi sono un insieme di vasi sanguigni e tessuto fibroso che si trovano sotto la mucosa del canale anale. Sono molto importanti per la continenza fecale insieme a nervi, mucosa e sfinteri. Il disturbo avviene in seguito alla loro infiammazione che causa gonfiore e dolore, determinando così la sindrome emorroidaria. E’ una condizione molto comune e le donne sono solitamente le più colpite, soprattutto durante e subito dopo la gravidanza. 

Le cause di questa patologia non sono ancora ben definite, ma alcuni fattori possono certamente contribuire allo sviluppo o peggioramento. Ad esempio: sedentarietà, cattive abitudini alimentari, predisposizione genetica, invecchiamento, stipsi ed altre problematiche intestinali. 

Così una corretta alimentazione può aiutare a prevenire e ridurre i sintomi.

Emorroidi e Alimentazione: sintomi e diagnosi della sindrome emorroidaria

I sintomi sono legati prevalentemente all’infiammazione e gonfiore delle emorroidi che possono rimanere all’interno dell’ano oppure uscire fuori. Ci sono altri sintomi caratteristici, come:

  • bruciore;
  • prurito;
  • dolore perineale e tensione dei muscoli anali;
  • sanguinamento.

Di solito la risoluzione della sindrome emorroidaria è spontanea, ma può anche cronicizzare. La diagnosi spetta al medico specialista proctologo che è sempre bene consultare, soprattutto in casi di sanguinamento. 

Perché la Dieta è Importante in Caso di Emorroidi

L’alimentazione gioca un ruolo fondamentale nella sindrome emorroidaria per stabilire una corretta regolarità intestinale ed evacuazione senza sforzi. 

Infatti, le emorroidi sono vene gonfie nell’area anale o rettale, spesso aggravate da sforzi durante l’evacuazione. Una dieta povera di fibre può aumentare il rischio di stitichezza, rendendo le emorroidi più dolorose e persistenti. Inoltre, è importante anche la riduzione di zuccheri semplici e non superare l’apporto del 30% di grassi rispetto alla quota calorica totale per diminuire l’infiammazione.

 Obiettivi della dieta anti-emorroidi

  • Migliorare la regolarità intestinale
  • Ridurre l’infiammazione
  • Prevenire il peggioramento dei sintomi

Emorroidi e Alimentazione : Cosa Mangiare per Prevenire o Alleviare

1. Alimenti ricchi di fibre

Le fibre favoriscono il transito intestinale e ammorbidiscono le feci, riducendo lo sforzo durante l’evacuazione.

  • Frutta fresca (mele, pere, kiwi)
  • Verdure a foglia verde (spinaci, bietole, broccoli)
  • Legumi (lenticchie, ceci, fagioli)
  • Cereali integrali (avena, farro, pane integrale)

Consiglio: introdurre fibre gradualmente per evitare gonfiore o crampi.

2. Bere molta acqua

L’acqua è essenziale per il corretto funzionamento intestinale. Si consiglia di bere almeno 1,5-2 litri di acqua al giorno, specialmente se si aumentano le fibre.

3. Alimenti con proprietà antinfiammatorie

  • Olio extravergine di oliva
  • Pesce azzurro ricco di Omega-3 (salmone, sgombro)
  • Curcuma e zenzero

Cosa Evitare in caso di Emorroidi

1. Alimenti irritanti

  • Spezie piccanti
  • Alcol
  • Caffè in eccesso
  • Spezie come peperoncino, pepe, aglio, curry e paprika 
  • Alimenti con tanti grassi idrogenati e condimenti ricchi di grassi
  • Salse 

2. Cibi che peggiorano la stipsi

  • Riso bianco, patate, limoni, carote, banane
  • Eccesso di sale 

Stile di Vita e Abitudini Comportamentali

Una corretta alimentazione va sempre accompagnata da uno stile di vita sano:

  • Evitare di trattenere lo stimolo a defecare
  • Praticare attività fisica regolare (camminata, nuoto, yoga)
  • Evitare la sedentarietà prolungata
  • Non trascorrere troppo tempo seduti sul WC

Emorroidi e Alimentazione: Quando Rivolgersi ad un Nutrizionista

Se soffri frequentemente di emorroidi o stipsi, un piano alimentare personalizzato può fare la differenza. Un nutrizionista può aiutarti a:

  • Bilanciare l’apporto di fibre
  • Migliorare l’idratazione
  • Individuare eventuali intolleranze che peggiorano l’infiammazione

Conclusioni

Le emorroidi possono essere fastidiose, ma con la giusta alimentazione è possibile ridurre i sintomi e migliorare la qualità della vita. Una dieta ricca di fibre, acqua e nutrienti antinfiammatori è il primo passo per ritrovare benessere.

Bisogno di modificare la vostra alimentazione senza rinunciare al piacere del cibo? seguite il mio blog!


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5 Maggio 2025

Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica intestinale che causa irritazione e gonfiore dei tessuti del tratto interessato.  Questo tipo di patologia è caratterizzata da un’infiammazione cronica che può indurre ulcere intestinali di solito alternate a parti sane dell’intestino. Nel morbo di Crohn vi è un’attivazione del sistema immunitario cronica o recidivante nel tratto intestinale.  

Il morbo di Crohn può colpire diversi punti dell’intestino ma più frequentemente interessa la fine dell’intestino tenue e quello crasso. L’infiammazione è spesso molto profonda , riguardando diversi strati dell’intestino. Questa patologia può essere molto dolorosa e debilitante e può portare anche a gravi complicazioni. 

Purtroppo non esiste una cura per il morbo di Crohn. Le terapie esistenti possono contribuire a migliorare molto i sintomi ed in alcuni casi portare alla remissione e alla guarigione a lungo termine dell’infiammazione.

 L’alimentazione può aiutare molto in ottica preventiva e nella gestione della patologia, anche se non è la causa scatenante.

Quali sono i sintomi del morbo di Crohn?

I sintomi che riguardano questa patologia sono: dolore addominale, sangue nelle feci, afte, diarrea cronica, fistole o ascessi perianali, perdita di peso, febbre, affaticamento e malnutrizione.

I sintomi del morbo di Crohn possono essere sia lievi che gravi. Normalmente l’esordio avviene con sintomi che sviluppano gradualmente, mentre poi in alcuni casi possono manifestarsi improvvisamente, senza preavviso. Chi è affetto dal morbo di Crohn può avere dei  periodi in cui vi è assenza dei sintomi, asintomatici. Questa fase è conosciuta come remissione.

Morbo di Crohn e alimentazione: perchè è importante?

Anche se non esistono delle linee guida universali per l’alimentazione ed il morbo di Crohn, con alcuni accorgimenti si può contribuire al miglioramento della patologia. Ad esempio attuare una distinzione tra le fasi attive (riacutizzazioni) e quelle di remissione, può contribuire a ridurre l’infiammazione e migliorare l’assorbimento dei nutrienti.

Cosa mangiare con il morbo di Crohn: alimenti consigliati

L’alimentazione non cura ma può aiutare soprattutto durante le fasi di remissione o in presenza di sintomi lievi. Ad esempio in questa fase si consigliano soprattutto:

  • Alimenti poveri di fibre insolubili: riso bianco, pane bianco, patate senza buccia.
  • Acqua: avere una corretta idratazione bevendo almeno 1,5/2 Litri al giorno.
  • Proteine magre: pollo, tacchino, pesce, uova.
  • Verdure cotte e sbucciate: carote, zucchine, spinaci ben cotti.
  • Frutta cotta o senza buccia: mele cotte, banane mature.
  • Grassi sani: olio extravergine di oliva, avocado in quantità moderate.
  • Latticini senza lattosio (se tollerati).

E’ importante introdurre gli alimenti gradualmente valutando la reazione del corpo.

Alimenti da Evitare

Nel momento in cui invece la patologia è in fase di riacutizzazione e provoca dolori è consigliabile evitare:

  • Fibre insolubili: cereali integrali, legumi, verdure crude.
  • Verdure che producono molto gas come broccoli, cavolfiori e broccoli.
  • Latticini interi: latte, formaggi stagionati, yogurt intero.
  • Alimenti fritti o molto grassi: patatine, snack confezionati, salse grasse.
  • Cibi piccanti o speziati: peperoncino, curry, pepe nero.
  • Alcol e caffeina: possono irritare l’intestino.
  • Bibite gassate
  • Sorbitolo, mannitolo e altri dolcificanti. 
  • Zuccheri raffinati: dolci, bevande zuccherate.

Dieta specifica : FODMAP, SCD o low residuo?

Nel tempo si sono poi sviluppati molti approcci dietetici per provare a limitare fastidi e disturbi. Tra i vari protocolli utilizzati queste diete specifiche sono quelle da cui i pazienti hanno tratto maggior beneficio: 

  • Dieta a basso contenuto di FODMAP : utile per chi ha anche sintomi da colon irritabile.
  • Dieta a basso residuo: indicata nei momenti di riacutizzazione, riduce il volume delle feci.

Prima di intraprendere un percorso o eliminare alcuni cibi è bene consultare sempre un nutrizionista esperto in IBD per scegliere insieme la strategia migliore.

Conclusione: personalizza la tua alimentazione

Ogni persona risponde e tollera diversamente gli alimenti, per questo motivo è importante personalizzare l’alimentazione. Uno strumento che può aiutare in tal senso è il diario alimentare, ossia un tracciamento di ciò che si mangia in associazione a sintomi o meno. Con il passare del tempo dal diario si può evidenziare come alcune categorie alimentari o specifici alimenti siano più o meno problematici per la patologia. Oltre a ciò va strutturata la dieta tenendo conto dello stile di vita della persona, degli orari ed dell’attività sportiva. Il piano alimentare deve essere il più possibile semplice e flessibile per adottare delle abitudini che rimangano nel tempo. Così programmare ed organizzare la propria alimentazione con un medico ed un nutrizionista è la chiave per convivere al meglio con il morbo di Crohn. 

FAQ

Il morbo di Crohn si può curare con la dieta?
No, una dieta sana ed equilibrata può aiutare a gestire i sintomi e a migliorare la qualità della vita.

Posso mangiare glutine se ho il morbo di Crohn?
Dipende: non è necessario eliminarlo a meno che non ci sia una sensibilità o intolleranza documentata oppure si attui un protocollo dietetico particolare per provare a migliorare i sintomi. 

I probiotici aiutano con il Crohn?
Alcuni studi suggeriscono benefici, ma i risultati sono ancora controversi. Consulta sempre il tuo gastroenterologo.

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8 Novembre 2024

Il diabete mellito gestazionale (GDM) è una condizione che si può verificare in gravidanza, in cui si manifesta un’alterazione del metabolismo del glucosio. Secondo dati europei e nazionali si stima che circa il 6-7% delle gravidanze siano rese più difficili dall’insorgenza di questo tipo di diabete.

Il diabete gestazionale si definisce in base a diversi parametri, ma sicuramente deve essere diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza. Questi casi di diabete si risolvono spesso dopo il parto, pur essendoci un rischio maggiore che anni dopo si ripresenti come diabete di tipo 2. 

Una piccola percentuale di donne affette da diabete gestazionale presenta delle peculiarità del diabete autoimmune dal punto di vista genetico, immunologico e clinico. In seguito, pressappoco la metà di queste donne dopo la gravidanza saranno affette da diabete autoimmune. 

Complicanze e sintomi del diabete gestazionale

Il diabete mellito gestazionale se non trattato correttamente può indurre delle complicanze durante il parto, sia alla madre che al feto. Inoltre, con il diabete gestazionale aumenta il rischio di malformazioni fetali e/o morte intrauterina. 

Molti studi scientifici indicano che dei valori alterati di glucosio nella parte finale della gravidanza aumentino la probabilità di complicanze perinatali. 

Altri dati indicano che il rischio, per chi ha avuto il diabete gestazionale, di manifestare anche diabete di tipo 2 nei successivi 5-10 anni dal parto sia molto superiore rispetto  alle donne che non lo hanno avuto. 

Purtroppo sintomi evidenti che identifichino questa patologia il più delle volte non ci sono. Di rado si può notare una sensazione di sete, nausee, infezioni e necessità di urinare.  Per questi motivi è molto importante agire in ottica preventiva, facendo tutti i controlli medici e ginecologici previsti e adottando una dieta adeguata.

Solitamente la diagnosi viene eseguita facendo un test ,che prevede una carico di glucosio orale, tra la   24° e 28° settimana di gravidanza. Più precisamente è somministrata per bocca una soluzione di 75 grammi di glucosio e poi misurata la glicemia con un prelievo di sangue venoso.  I prelievi sono fatti in tre momenti differenti: all’inizio, dopo un’ora ed ancora dopo due ore. 

Per la diagnosi di diabete gestazionale la glicemia deve essere uguale o superiore a questi valori limite:

  • 92 mg/dl a digiuno;
  • 180 mg/dl a 60 minuti;
  • 153 mg/dl a 120 minuti.

Quali sono le cause ed i fattori di rischio del diabete gestazionale?

Le cause che molto spesso portano all’insorgenza del diabete mellito gestazionale sono dovute principalmente a cambiamenti ormonali durante la gravidanza. Succede che la placenta produce degli ormoni che ostacolano l’azione dell’insulina facendo aumentare i valori di glicemia. Se il pancreas non risponde producendo più insulina per diminuire la glicemia o se vi è una resistenza all’insulina si sviluppa il diabete gestazionale. 

Ci sono dei fattori di rischio che andrebbero considerati anche se solo su alcuni di essi è possibile intervenire, vediamone insieme alcuni: 

  • sovrappeso e obesità 
  • precedente neonato macrosomico dal peso di 4.5 kg o maggiore
  • diabete gestazionale in gravidanza precedente
  • anamnesi familiare di diabete (parente di primo grado con patologia)
  • famiglia originaria di aree ad alta prevalenza di diabete.

Prevenzione del diabete gestazionale con lo stile di vita

I fattori di rischio sui quali è possibile intervenire maggiormente sono la corretta alimentazione ed uno stile di vita attivo, prevenendo così sovrappeso ed obesità. Praticare attività sportiva, secondo la propria situazione e possibilità, o comunque condurre una vita non sedentaria è altrettanto importante. Ad esempio, ritagliarsi nella giornata 30 minuti per fare una camminata è una buona idea per migliorare il metabolismo glucidico e la sensibilità insulinica. 

Ovviamente durante la gravidanza è bene svolgere tutti i controlli medici previsti per poter diagnosticare l’eventuale insorgenza di diabete in maniera precoce. E’ fondamentale avere una corretta alimentazione e gestione della glicemia in ogni momento della giornata per diminuire il rischio di complicanze per madre e feto. 

Così, è necessario avere una dieta personalizzata, sviluppata da un professionista come un medico o un biologo nutrizionista .  La parte che richiede maggiore attenzione è senza dubbio la gestione degli zuccheri e dei carboidrati, che si dovranno assumere nelle giuste quantità ed abbinamenti. Oltre alla quantità di zuccheri che si mangiano il nutrizionista ha  il ruolo di gestire soprattutto il carico glicemico dei diversi pasti nella giornata. Questo è molto importante per non creare una risposta glicemica ed insulinica alterata e pericolosa. L’apporto delle giuste quantità di verdure e frutta consentono il corretto introito di fibre, un componente veramente indispensabile nella sazietà e assorbimento degli zuccheri.

Se tutto ciò non dovesse bastare, l’intervento medico con  una terapia farmacologica, è indispensabile per avere i giusti livelli di zuccheri nel sangue ed evitare rischi. 


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19 Luglio 2024

La gotta è una malattia metabolica che causa attacchi di artrite in seguito all’accumulo di cristalli di acido urico nelle articolazioni. Sono principalmente gli uomini che ne soffrono ma nelle donne in menopausa l’incidenza aumenta in maniera decisa. Una volta veniva definita la “malattia del Re” perché si manifestava soprattutto in chi poteva permettersi di mangiare tanto. Attualmente interessa soprattutto chi non si alimenta correttamente, anche se per il 70% dei casi la gotta ha cause genetiche. 

L’artrite si manifesta in una forma complessa in cui i sintomi principali sono: 

  • attacchi improvvisi e gravi di dolore, 
  • gonfiore, 
  • arrossamento,
  • dolorabilità in una o più articolazioni, più spesso nell’alluce circa nel 75% dei casi.

L’attacco di gotta può venire anche all’improvviso, ad esempio anche durante la notte con la sensazione che l’alluce sia in fiamme. Gli attacchi sono dolorosi, infatti l’articolazione si presenta calda, gonfia e così dolente che persino il peso il lenzuolo sopra di essa può sembrare intollerabile.

Ci sono diversi modi per gestire i sintomi e prevenire le riacutizzazioni, vediamo in seguito come. 

Cause della Gotta

Il meccanismo principale attraverso cui si verifica la gotta è l’accumulo nell’articolazione di cristalli di urato, che determinano infiammazione e dolore acuto. I cristalli di urato si formano quando la quantità di acido urico nel sangue è eccessivamente alta. Il corpo umano produce acido urico scomponendo le purine che sono delle molecole organiche azotate e presenti in tutte le cellule. Questi composti costituiscono anche il nostro di DNA ed RNA con le basi azotate (adenina, guanina ed uracile nell’RNA). 

Altre purine note ed importanti sono la caffeina del caffè, la teobromina del tè e la xantina presente in entrambi. Di solito la quantità di acido urico nel sangue viene regolata dall’organismo attraverso l’escrezione nelle urine dai reni. Quando invece il corpo produce troppo acido urico e lo accumula, oppure i reni ne espello troppo poco, si viene a causare iperuricemia. Come accennato quando l’acido urico si accumula eccessivamente si formano nei tessuti limitrofi o nell’articolazione dei cristalli di urato affilati e aghiformi che causano dolore, infiammazione e gonfiore.

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori che aumentano il livello di acido urico nel corpo includono:

  • L’alimentazione: avere una dieta sbilanciata consumando molta carne rossa , crostacei e bere bevande zuccherate con fruttosio incrementa i livelli di acido urico. Anche il consumo di alcol, soprattutto di birra, aumenta il rischio di gotta.
  • Peso: in sovrappeso il corpo produce più acido urico e si ha maggior difficoltà da parte dei reni ad eliminarlo.
  • Patologie: Il rischio di gotta può aumentare in presenza di malattie come l’ipertensione, il diabete, l’obesità, la sindrome metabolica e le malattie cardiache e renali.
  • Farmaci: alcuni farmaci possono aumentare il rischio di gotta. Tra questi troviamo l’aspirina a basso dosaggio e alcuni farmaci usati per controllare l’ipertensione. Lo stesso vale per l’uso di farmaci antirigetto prescritti alle persone che hanno subito un trapianto d’organo.
  • Storia familiare di gotta: se altri membri della tua famiglia hanno avuto la gotta, è più probabile che tu sviluppi la malattia.

Complicanze nella gotta

Le persone affette da gotta possono sviluppare con il tempo condizioni più gravi.

In alcuni individui la gotta può essere ricorrente e verificarsi con diversi episodi. Se non trattata adeguatamente la gotta può portare all’erosione e compromissione dell’articolazione. I farmaci possono aiutare gli attacchi di gotta ricorrenti. 

Mentre la gotta non trattata può causare la formazione di depositi di cristalli di urato sotto la pelle. I cristalli si possono formare in diverse aree, come le dita, le mani, i piedi, i gomiti o i tendini di Achille lungo la parte posteriore delle caviglie. Solitamente questa condizione non produce molto dolore, ma possono creare gonfiore e dolore durante gli attacchi di gotta. Gli attacchi di gotta partono colpendo in primis l’alluce, con una successiva estensione ad altre zona già elencate precedentemente. 

Infine i cristalli di urato possono ammassarsi nelle vie urinarie delle persone con  gotta, causando calcoli renali. I farmaci possono aiutare a ridurre il rischio di calcoli renali.

Nell’Alimentazione..

La cura per la gotta è farmacologica, attraverso un’adeguata terapia si riduce l’uricemia. Tuttavia si può aiutare la gestione della patologia con una dieta povera o priva di ‘purine’. 

La prima regola è quindi di eliminare o ridurre drasticamente tutti gli alimenti che contengono purine oltre che ridurre l’apporto proteico. Principalmente sono alimenti di origine animale ad eccezione di uova e latticini. 

Tra i cibi che hanno un alto contenuto di purine troviamo: pesce azzurro (alici, acciughe e sardine) frattaglie (fegato, animelle, cervello), estratto di carne e selvaggina.

I cibi con un medio contenuto di purine sono invece: carni, pollame, crostacei, salami e insaccati in genere, legumi (piselli, fagioli, lenticchie), asparagi, spinaci, cavolfiori e funghi.

Infine i cibi a basso contenuto di purine: latte, uova, formaggi, verdure, ortaggi (escluso quelli sopra detti), frutta, pasta e altri cereali (tranne germe di grano e prodotti integrali).

Così, sarebbe meglio seguire un’alimentazione con una buona percentuale di carboidrati (amido) che aiuta l’escrezione di acido urico. Oltre a ciò anche diminuire i grassi ed il fruttosio (presente nei dolci, cachi, fichi, uva e banane) che ne favorisce la ritenzione.

E’ fortemente sconsigliato seguire delle diete fortemente ipocaloriche con rigida riduzione o esclusione di carboidrati oltre che seguire digiuni prolungati. Infine è molto importante essere correttamente idratati e diminuire il più possibile l’assunzione di alcol in particolare la birra. Tutti questi accorgimenti dipendono molto dal quadro clinico della persona, l’alimentazione che ne deriva deve essere quindi strettamente personalizzata. Per questo è importante che venga impostata da un medico o un biologo nutrizionista, evitando così errori grossolani nella gestione degli alimenti e delle quantità.

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26 Gennaio 2024

Il colesterolo è una molecola appartenente alla classe dei grassi, presente nel sangue,  che svolge delle funzioni essenziali per l’organismo. Questo grasso viene prodotto soprattutto dal corpo umano mentre una piccola percentuale è assimilata con l’alimentazione. Sebbene sia fondamentale per diversi processi fisiologici nel nostro corpo l’eccesso di colesterolo rappresenta uno dei fattori di rischio primari per le patologie cardiovascolari

Viene definito “colesterolo alto” o “ipercolesterolemia” un valore di colesterolo totale presente nel sangue superiore a 240 mg/dl. 

Cos’è il Costelerolo?

Il colesterolo si trova nel sangue ed essendo idrofobico (resistente alla penetrazione di acqua) viene trasportato all’interno di proteine quali:

  • le lipoproteine a bassa densità o LDL ( Low density lipoprotein) 
  • proteine ad alta densità HDL ( Hig density lipoprotein) 

I valori di queste proteine sono misurati mediante analisi del sangue per valutare proprio la quantità di colesterolo presente. Le LDL sono proteine conosciute come colesterolo cattivo in quanto legano e trasportano il colesterolo in eccesso dal fegato alle arterie. Mentre le proteine HDL ne favoriscono la rimozione dal sangue proteggendo vasi e cuore.  Il colesterolo totale che si misura mediante le analisi del sangue è approssimativamente la somma di LDL e HDL. 

Come detto, questo grasso è in particolare uno steroide che ha funzioni molto importanti per il nostro organismo, ad esempio è : 

  • componente fondamentale delle membrane cellulari, grazie alle sue proprietà garantisce la fluidità della membrana. 
  • precursore di ormoni steroidei e vitamina D. 
  • elemento della bile che ha una funzione importante per la digestione ed assorbimento dei grassi. 

Tutti i tessuti del nostro corpo sono in grado di produrre colesterolo ma la maggior parte viene sintetizzato nel fegato. 

Cause e Rischi di avere il colesterolo alto

Il colesterolo non causa di per sé alcun disturbo, anzi è indispensabile per il nostro organismo. E’, invece, il suo eccesso insieme ad un’alterazione del metabolismo lipidico a provocare problemi di salute. 

Per valutare la presenza di colesterolo elevato nel sangue le analisi sono l’unico strumento d’indagine, infatti il colesterolo alto non provoca nessun sintomo. Quando presente in quantità eccessive, si deposita sulle pareti delle arterie contribuendo a formare delle lesioni che ispessiscono e irrigidiscono il vaso sanguigno. Questo processo è chiamato aterosclerosi, le placche possono restringere, ostruire o bloccare del tutto il passaggio del sangue nei vasi provocando ictus e infarto.

Più precisamente, le lipoproteine LDL avendo bassa densità si spostano in prossimità dei vasi sanguigni che stanno attraversando. Se LDL aumentano troppo la probabilità che queste particelle si depositino sulla parete dei vasi sanguigni aumenta. 

Valori di riferimento?

Il ministero della salute indica dei valori di riferimento nelle linee guida per la prevenzione dell’aterosclerosi e delle malattie cardiovascolari. 

L’ipercolesterolemia, ed in particolare l’aumento della colesterolemia LDL, è un fattore di rischio potente ed indipendente di malattia coronarica. I valori di riferimento sono riportati in Tabella 1.

Anche elevati livelli di trigliceridi (> 150mg/dL) sono considerati un fattore indipendente di rischio coronarico. Questo valore diviene critico soprattutto se associato a ridotta colesterolemia HDL (< 40 mg/dL) o nell’ambito della cosiddetta “sindrome metabolica”.

Classe Valori

Colesterolo Totale

< 200

200-239

> 240

Colesterolo LDL


< 100

100-129

130-159

160-189

> 190

Colesterolo HDL

< 40

> 60



Desiderabile

Moderatamente alto

Alto




Ottimale

Quasi ottimale

Moderatamente alto

Alto

Molto alto



Basso

Alto
Tabella 1 – Classificazione dei valori lipoproteici per l’età adulta (mg/dl)

Colesterolo e Dieta

L’American Heart Association elenca 4 punti fondamentali per la strategia dietetica preventiva nei confronti di patologie cardiovascolari :

  1. seguire una dieta bilanciata
  2. controllare il peso corporeo;
  3. fare un controllo dell’ipercolesterolemia;
  4. controllare l’ipertensione.

Uno degli elementi per controllare parzialmente i livelli di colesterolo è quindi seguire una dieta idonea mantenendo un peso corporeo corretto. Tuttavia, la dieta può incidere solo per una piccola parte; infatti circa il 75-80% del colesterolo presente in circolo è prodotto direttamente dal nostro organismo. Ma quali sono le indicazioni dietetiche per abbassare i livelli di questo grasso ?

  • Seguire una dieta che fornisca un apporto energetico moderato rispetto ai propri fabbisogni (dieta ipocalorica)
  • Apporto giornaliero di colesterolo inferiore ai 300 mg oppure sotto i 100 mg per 1000 kcal 
  • Introduzione della giusta quantità di fibra utilizzando 5 porzioni al giorno tra frutta e verdure oltre che cereali integrali e legumi
  • Quota lipidica correttamente suddivisa fra acidi grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi
  • Moderare il consumo di formaggi, grassi saturi, grassi tropicali e alimenti ricchi di omega 6
  • Moderato consumo di alimenti industriali e raffinati con zuccheri semplici e grassi trans
  • Basso consumo di alcool e dolci 
  • Preferire pesce, carne bianca ed evitare carne conservata. 

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12 Ottobre 2023

L’osteoporosi è una malattia sistemica cronica dello scheletro, è caratterizzata dalla riduzione della massa ossea e dal contemporaneo deterioramento della struttura ossea. Le ossa diventano più fragili ed aumenta così il rischio di fratture di vertebre, femore, omero, ossa del polso e della caviglia, per traumi anche minimi.

Dagli ultimi dati del ministero della salute si stima che in Italia circa 5 milioni di persone soffrano di questa patologia. Circa l’80% di questa cifra è rappresentata da donne in post menopausa, che per via della carenza di estrogeni sono più esposte a tale condizione. 

Le fratture da fragilità per osteoporosi hanno conseguenze importanti, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria. Nel 20% dei casi si ha la perdita definitiva della capacità di camminare autonomamente e solo il 30-40% dei soggetti torna alle condizioni precedenti la frattura.

Sintomi e diagnosi dell’osteoporosi

La formazione ed il mantenimento della massa ossea sono influenzati da una serie di fattori, tra cui:

  • l’ereditarietà, 
  • il sesso,
  • l’alimentazione,
  • i fattori endocrini, 
  • le influenze meccaniche, 
  • alcuni fattori di rischio.

L’osteoporosi non presenta sintomi evidenti, per questo motivo è una patologia definita “silenziosa”. Molti pazienti scoprono di averla quando già sono emerse le principali problematiche come microfratture, diminuzione dell’altezza, deformazione della colonna e dolore.

In situazioni più avanzate si possono causare fratture ossee spontanee e fragilità scheletrica che riguardano l’intera colonna vertebrale, le ossa lunghe ed il bacino. La prevenzione ha ruolo determinante, soprattutto per la popolazione femminile, nella fascia di età tra i 50 e gli 80 anni, che è maggiormente a rischio.  

Lo strumento necessario a diagnosticare l’osteoporosi è la MOC (Mineralometria Ossea Computerizzata), un esame radiologico di solito effettuato a livello femorale o lombare. Questo esame rivela la densità ossea del paziente. In aggiunta a questa indagine si potranno effettuare altri esami strumentali come la radiografia o la risonanza magnetica della colonna vertebrale, esami clinici di laboratorio come quelli del sangue e delle urine.

Svolgere questi esami precocemente e con regolarità è importante per conoscere la propria situazione. Dai 45 anni di età è un esame che viene consigliato per evitare di incorrere in problematiche più rilevanti o per monitorare un quadro clinico già compromesso. 

Alimentazione ed Osteoporosi

Sebbene l’osteoporosi si sviluppi in fasi avanzate della vita, essa deve essere prevenuta e fermata a partire dall’età pediatrica, agendo su fattori modificabili, in particolare dieta e stile di vita. Le ultime evidenze mostrano come l’alimentazione possa agire favorevolmente nella prevenzione e nel controllo della malattia.

Ad esempio è consigliabile evitare restrizioni energetiche drastiche e durature, soprattutto nelle donne in postmenopausa e se affette da osteopenia/osteoporosi. Addirittura sembra sia preferibile un leggero sovrappeso piuttosto che il sottopeso. 

Un apporto proteico leggermente aumentato rispetto al normale sembra sia benefico per le ossa ma questo a condizione che l’apporto di calcio sia adeguato. 

Dovrebbe essere evitato un consumo eccessivo di zuccheri e grassi saturi, che ostacolano un corretto assorbimento di calcio così come: caffè, alcol, sale e fosforo. Inoltre sarebbe importante raggiungere i giusti apporti nutrizionali stabiliti per gli acidi grassi polinsaturi (ω-3) e le fibre.

È importante monitorare lo stato della vitamina D (e l’apporto di calcio), troppo spesso inadeguato in alte percentuali di popolazione. L’apporto delle vitamine K, C e del gruppo B, è altrettanto importante ma anche di magnesio, potassio, ferro, zinco, rame, fluoro, manganese, silicio e boro. 

La vitamina D ha ruolo essenziale nell’assorbimento di calcio. Infatti, questa vitamina insieme ad ormoni come il paratormone e la calcitonina, regola l’utilizzo di calcio per lo scheletro oltre che la sua escrezione. La funzione principale e più nota della vitamina D è quella di favorire il processo di mineralizzazione dell’osso, aumentando l’assorbimento intestinale di fosforo e calcio, e diminuendo l’escrezione di calcio nell’urina.

Valutare eventuali carenze di vitamina D e calcio rientra nelle attività di prevenzione da compiere regolarmente, soprattutto per soggetti più a rischio. Solo dopo aver svolto delle analisi ematochimiche per valutare la situazione si può capire che tipo di integrazione attuare e in che dosaggio. 

Tra le altre pratiche di prevenzione è altrettanto importante adottare e mantenere uno stile di vita attivo, praticando regolarmente un’adeguata attività fisica. 

Fabbisogno di calcio ed osteoporosi: quali sono le quantità?

Il calcio costituisce l’elemento fondamentale per la costruzione dello scheletro e dei denti e fra tutti i minerali è il presente nell’organismo. In un uomo di 70 chilogrammi si trovano circa 1200 grammi di calcio: circa il 98% del calcio è contenuto nello scheletro, prevalentemente sotto forma di fosfato carbonato e floruro; l’1% è nei denti; il restante 1% si trova all’interno delle cellule, nei liquidi organici e nel plasma, dove la concentrazione ammonta a 9-11 mg/100ml.

Il calcio è indispensabile per la regolazione della contrazione muscolare (compreso il muscolo cardiaco), la coagulazione sanguigna, la trasmissione degli impulsi nervosi, la regolazione della permeabilità cellulare e l’attività di numerosi enzimi. Gli alimenti che contengono la maggiore quantità di calcio sono il latte e derivati, uova, legumi e pesci.Il fabbisogno giornaliero per gli adulti è di circa 800-1000 mg; valori più elevati si hanno per gli anziani (1000-1200 mg), per adolescenti e donne in gravidanza o allattamento (1200-1500 mg).

Alimentazione ed Osteoporosi: quali alimenti assumere e quali elementi preferire

  • Latte e altri prodotti lattierocaseari come yogurt e formaggi.
  • Pesce, come quello azzurro, i polpi, i calamari e i gamberi.
  • Molte verdure verdi come la rucola, il cavolo riccio, le cime di rapa, i broccoli, i carciofi, gli spinaci, i cardi. Tuttavia, il calcio delle verdure è molto meno assimilabile di quello dei latticini. 
  •  Frutta secca (mandorle, arachidi, pistacchi, noci, nocciole). Non bisogna però esagerare con le quantità essendo molto calorica.
  • Legumi, in particolare i ceci, le lenticchie, i fagioli cannellini, borlotti e occhio nero. 
  • Anche una buona spremuta d’arancia, oltre a tanta vitamina C, potassio e beta carotene, può fornirci la giusta quantità di calcio.


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17 Marzo 2023

La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è un disturbo comune che colpisce lo stomaco e l’intestino, chiamato anche tratto gastrointestinale. E’ una patologia cronica che colpisce circa il 10% della popolazione, soprattutto il sesso femminile e di età tra i 20 ed i 50 anni. Solo un piccolo numero di persone con IBS presenta sintomi gravi. Alcune persone possono controllare i loro sintomi gestendo la dieta, lo stile di vita e lo stress. Sintomi più gravi possono invece essere trattati con terapie farmacologiche mirate e consulenza. 

La sindrome del colon irritabile non determina un cambiamento del tessuto intestinale e non aumenta la probabilità di avere tumore del colon retto. 

Sintomi e Cause

I sintomi principali dell’intestino irritabile solitamente sono: 

  • Dolore addominale, crampi o gonfiore dovuto al transito intestinale.
  • Cambiamento della frequenza del transito intestinale.
  • Intestino diarroico o stitico o misto. 

Altri sintomi che sono spesso correlati includono sensazione di evacuazione incompleta e aumento di gas o muco nelle feci. I disturbi sono intermittenti e possono durare alcuni giorni, settimane o nei casi più gravi anche mesi. 

Le cause esatte della sindrome dell’intestino irritabile non sono note con certezza. Però alcuni studi mostrano che vi sono alcuni fattori che incidono di più:

  • Alterazione della motilità intestinale con un passaggio del cibo troppo veloce o troppo lento. 
  • Problemi con i nervi nel sistema digestivo : segnali scarsamente coordinati tra il cervello e l’intestino possono indurre il corpo a reagire in modo eccessivo ai cambiamenti che si verificano durante la digestione. Ciò può provocare dolore, diarrea o costipazione. 
  • L’IBS può svilupparsi dopo un grave attacco di diarrea causato da batteri o virus, la gastroenterite. L’IBS potrebbe anche essere associato a un eccesso di batteri nell’intestino. 
  • Familiarità, ossia la presenza di più casi nella stessa famiglia.
  • Alterazioni della flora batterica intestinale. La ricerca indica che i microbi nelle persone con IBS potrebbero differire da quelli nelle persone che non hanno IBS.
  • Stress, sembra che le persone esposte a eventi stressanti, specialmente durante l’infanzia, tendono ad avere più sintomi di IBS.

Alimentazione e Sindrome dell’intestino irritabile

Vi sono due stadi della malattia, nella fase acuta le raccomandazioni dietetiche cambiano, prediligendo più una dieta liquida con reintegro di liquidi e sali minerali. 

Tuttavia, delle raccomandazioni dietetiche generali sono sempre valide: 

  • Avere una corretta idratazione, in particolar modo se presente stipsi per formare feci morbide. 
  • Evitare preparazioni con utilizzo di molti grassi, cibi fritti preferendo piatti e cotture semplici (vapore, ferri, cartoccio , forno).
  • Non saltare i pasti, mangiare lentamente, attuando una dieta bilanciata ed evitando l’eccesso di grassi, proteine e fibre. Non eliminare i carboidrati.  
  • Valutare una tolleranza soggettiva ad alimenti o categorie alimentari. Più del 60% delle persone riferisce che i sintomi peggiorano dopo aver mangiato certi cibi.

Alcune alimenti potrebbero invece avere un impatto negativo sulla patologia, vediamone insieme alcune: spezie piccanti, alcolici e superalcolici, bibite gassate, caffè e bevande con molta caffeina (la quale stimola la motilità intestinale), salse elaborate, condimenti grassi come panna e burro, fibra della crusca.

Anche la gestione delle porzioni è importante, mangiare troppo o troppo frequentemente può peggiorare i sintomi. 

Ci sono poi alcuni cibi che andrebbero gestiti con moderazione anche se non in presenza della fase acuta, tra questi troviamo: gli alimenti integrali per cui va valutata la tolleranza individuale, i legumi, verdura molto fibrosa e che possono formare gas in fase digestiva come broccoli, cavoli, carciofi, cardi etc. e frutta come prugne, uva, albicocche

Sembrerebbe che anche l’orario dei pasti sia importante, prediligendo quantità maggiori al mattino e a pranzo, meno alla sera.

Stile di vita, Dieta low FODMAP e Sindrome del Colon irritabile

Lo stile come in molte patologie può migliorare la condizione. E’ consigliabile mantenere uno stile di vita attivo, praticare attività sportiva, non fumare e possibilmente eliminare fattori stressanti. È stato dimostrato che l’esercizio fisico regolare riduce i sintomi dell’IBS. Gli individui fisicamente attivi hanno movimenti intestinali più frequenti e un transito del colon più rapido rispetto agli individui sedentari. Un numero crescente di ricerche suggerisce che lo yoga potrebbe essere un trattamento aggiuntivo sicuro e benefico per le persone con IBS. 

Le diete a basso contenuto di oligosaccaridi fermentabili, disaccaridi, monosaccaridi e polioli (FODMAP) possono essere appropriate per i pazienti con IBS. Grano, cipolle,patate, qualche frutta e verdura, legumi, sorbitolo ed alcuni latticini, soprattutto freschi, sono alcuni degli alimenti che contengono FODMAP. In alcuni studi scientifici sembra che una dieta a basso contenuto di FODMAP mostri significativi effetti benefici. Tuttavia, le diete a basso contenuto di FODMAP sono efficaci quanto i consigli dietetici tradizionali per l’IBS. Inoltre, una dieta a basso contenuto di FODMAP è piuttosto restrittiva, l’aderenza a lungo termine è più difficile ed anche influenzare negativamente il microbioma intestinale.

Tutte le informazioni presenti in questo articolo hanno scopo informativo generale e non possono essere considerati come consigli o prescrizioni adatte al singolo individuo. Per attuare tutti questi accorgimenti mantenendo una dieta corretta e bilanciata è consigliabile rivolgersi ad un medico o nutrizionista.

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8 Febbraio 2023

L’obesità è uno dei problemi di salute pubblica più critici dei nostri tempi che accorcia l’attesa di vita. Ad essa sono associate patologie metaboliche (ad es. diabete e dislipidemie), tumorali, cardiovascolari o respiratorie.

Quando è necessaria una drastica riduzione di peso il solo approccio dietetico con un nutrizionista può non essere risolutivo o del tutto efficace. Così, se il problema persiste da molto tempo, gli interventi di chirurgia bariatrica possono rappresentare una strada percorribile. 

Gli interventi di chirurgia bariatrica:

Quando si è in presenza di obesità grave, di secondo o terzo grado , l’intervento di chirurgia bariatrica è fondamentale per ridurre il grasso in eccesso.  Oltre a diminuire il peso in eccesso gli interventi chirurgici hanno lo scopo di guarire o migliorare le patologie ad esso associate. 

La chirurgia bariatrica può far perdere circa il 70% del peso che si ha in più. Però la diminuzione di peso è sempre variabile e dipendente anche da fattori individuali come l’età, la composizione corporea e le patologie presenti. 

Gli interventi avvengono in via mini-invasiva laparoscopica, in assenza di complicazioni, dopo circa 48 ore dall’intervento, il paziente viene dimesso con la programmazione delle visite di controllo.

Ma quali sono i più frequenti interventi di chirurgia bariatrica? 

  • La sleeve gastrectomy è una resezione verticale di una parte dello stomaco. La riduzione dello stomaco porta ad avere meno fame ed un senso maggiore di sazietà, questo determina una perdita di peso.
  • Il bypass gastrico è spesso suggerito in caso di diabete tipo 2 e di severo reflusso gastroesofageo. Si perde peso sempre per maggiore senso di sazietà e minor fame ma vi è  anche un ridotto assorbimento intestinale.
  • Il bendaggio gastrico, intervento ormai meno comune, prevede che un anello di silicone stringa la parte alta dello stomaco. E’ un tipo di intervento con rischi minori ma anche con bassa efficacia, per questo non molto praticato. 
  • La diversione biliopancreatica è un intervento, molto rischioso e poco praticato, che viene utilizzato per un ristretto numero di persone attentamente valutate. 

Nutrizione pre e post chirurgia bariatrica:

Come si può evincere dalla descrizione del tipo di interventi di chirurgia bariatrica, non tutti possono essere candidati ad intervento. Avviene un’accurata valutazione in primis dal chirurgo ma anche da un’equipe di specialisti come l’endoscopista, l’endocrinologo, lo psicologo ed il nutrizionista. Oltre a ciò il paziente deve essere idoneo all’operazione anche dal punto di vista cardiologico e respiratorio. 

Prima dell’operazione viene fatta una valutazione nutrizionale per:

  • Individuazione deficit vitamine e sali minerali
  • Valutazione abitudini alimentari del soggetto obeso
  • Valutazione composizione corporea

Le informazioni raccolte saranno utilizzate dall’intero team nella scelta dell’intervento più adeguato al singolo paziente. Oltre a ciò si provvede ad una raccolta dati completa, aspettative e conoscenze del post-operatorio, condizioni patologiche presenti e pregresse ed eventuali trattamenti farmacologici.

Quali sono le principali problematiche post-operatorie?

Dopo chirurgia bariatrica possono riscontrarsi deficit di nutrienti. La severità della carenza dipende dal tipo di procedura chirurgica adottata. Gli interventi malassorbitivi sono quelli più a rischio nutrizionale. 

Tra i micronutrienti da valutare per una possibile deficit vi sono: l’acido folico, la vitamina B12, il ferro, le vitamine liposolubili (A,D,E,K). 

Deficit di macronutrienti possono invece verificarsi in seguito a :

  • malnutrizione proteica determinata da ridotto intake
  • ridotto contatto con l’acidità gastrica e minore assorbimento
  • vomito persistente
  • diarrea
  •  intolleranza ai cibi 
  • insorgenza Dumping Sindrome: precoce o tardiva.

E’ molto importante educare il paziente alla scelta e alla consistenza dei cibi, è infatti il primo problema da affrontare nel post-operatorio.  Le linee guida dell’American Endocrine Society consigliano una progressione della consistenza del cibo graduale, dai liquidi ai cibi frullati fino ad arrivare ai solidi. E’ necessario un adattamento dei pazienti ad una dimensione ridotta dello stomaco ed alle nuove abitudini alimentari.

Indicazioni comportamentali post – intervento:

Per procedere ad una cauta rialimentazione è importante attuare alcuni atteggiamenti comportamentali: 

  • masticare accuratamente il cibo preparato in piccoli bocconi,
  • mangiare lentamente facendo delle piccole pause tra un boccone e l’altro, 
  • fermarsi non appena si avverte la sensazione di pienezza dello stomaco, 
  • non bere durante il pasto e per almeno 1 ora dal termine, 
  • evitare di coricarsi a breve distanza di tempo dalla fine del pasto, 
  • frazionare i pasti: fare 3 pasti e 2-3 spuntini al giorno,  
  • non usare condimenti troppo elaborati (grassi, spezie piccanti o acidule, salse)

Controlli dopo intervento di chirurgia bariatrica:

I pazienti che si sottopongono a tali procedure devono essere monitorati per tutta la vita e devono essere informati che dovranno partecipare ad un lungo periodo di follow up.

I controlli hanno lo scopo di monitorare i cambiamenti del peso, delle comorbilità e della composizione corporea dei pazienti. È opportuno che i controlli avvengano in tempi ben determinati:

  • Dopo una settimana dall’intervento
  • Dopo 15 giorni dalla dimissione
  • Ogni mese per il primo anno
  • Ogni tre mesi dopo il primo anno

E’ importante enfatizzare che adeguamenti permanenti di comportamenti alimentari e attività fisica sono la chiave del successo per la perdita di peso per prevenire complicanze a lungo termine. Il rispetto delle indicazioni dietetiche, regolare attività fisica e la giusta supplementazione favoriscono i risultati a lungo termine.

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12 Ottobre 2022

In questi ultimi anni molte figure professionali si sono sviluppate intorno al mondo della nutrizione. Così , a volte, non è semplice capire quale professionista sia più adatto alle proprie esigenze. Vediamo insieme quali sono le diverse caratteristiche di ogni figura professionale.

Chi è il Biologo Nutrizionista

Il solo termine Nutrizionista non identifica un’unica figura professionale, è invece un termine generico che indica chi si occupa di alimentazione e dietetica. Non è necessario che il nutrizionista sia necessariamente un medico, per maggiore chiarezza si dovrebbe sempre  associare un titolo di studio. 

Il biologo nutrizionista ad esempio  è un professionista laureato (5 anni) che possiede l’abilitazione alla professione di biologo ed è iscritto all’Ordine Nazionale dei Biologi

Secondo il parere del Consiglio Superiore della Sanità il biologo può autonomamente elaborare profili nutrizionali al fine di proporre alla persona che ne fa richiesta un miglioramento del proprio “benessere”. 

Il biologo nutrizionista può così elaborare diete destinate sia a soggetti sani sia a soggetti cui è stata diagnosticata dal medico una patologia. 

Quando andare dal biologo nutrizionista

Nel caso in cui vi siano delle patologie diagnosticate dal medico e si necessiti di un piano alimentare adeguato, il biologo nutrizionista può elaborare un alimentazione adeguata. Vediamo insieme quali sono alcune delle patologie più comuni per le quali è richiesto un intervento del biologo nutrizionista:  

  • Diabete, tipo 1 e 2,
  • Dislipidemie,
  • Sindrome metabolica,
  • Patologie gastrointestinali, 
  • Allergie e intolleranze alimentari,
  • Disturbi del comportamento alimentare,
  • Obesità.

Oltre a queste patologie ce ne sono altre ma anche situazioni in cui non è necessario una diagnosi per curare la propria alimentazione. 

Ad esempio donne in gravidanza o allattamento necessitano di specifici consigli ed attenzioni in un periodo della vita così bello e difficile al tempo stesso. Il periodo della menopausa può risultare altrettanto complicato da gestire.

Anche gli sportivi che siano professionisti o amatoriali necessitano spesso di  un’alimentazione adeguata ai propri fabbisogni. Infatti, il binomio corretta alimentazione e allenamento è fondamentale per migliorare la prestazione ed anche la composizione corporea. 

Tuttavia, non è strettamente necessario avere una condizione particolare per richiedere la consulenza di un biologo nutrizionista. La scienza della nutrizione umana è una branca del settore sanitario relativamente “giovane” e non tutti conoscono le linee guida di una corretta e sana alimentazione. Così, si può richiedere l’intervento di un biologo nutrizionista per migliorare la propria alimentazione e adattarla al proprio stile di vita. 

Cos’altro può fare il biologo nutrizionista?

Il biologo nutrizionista può eseguire esami come l’impedenziometria e la plicometria. Con la plicometria si valuta la quantità di grasso sottocutaneo, con l’impedenziometria si valuta lo stato di idratazione e si ha una stima della composizione corporea. Può misurare peso ,altezza e calcolare l’Indice di massa corporea (IMC)

Tra le altre cose che può fare un biologo nutrizionista vi sono l’elaborazione di piani alimentari per la ristorazione collettiva, come mense scolastiche, ospedaliere ecc. Oltre a questo può dare indicazioni sull’utilizzo di integratori, supplementi alimentari o altri prodotti dietetici di libera vendita

Il biologo nutrizionista non può, invece, fare diagnosi e prescrivere terapia farmacologica o analisi del sangue. Queste competenze spettano solo e soltanto al medico. 

Quale altri professionisti esistono

Il biologo nutrizionista non è ovviamente l’unico professionista che può occuparsi di alimentazione. Il medico nutrizionista o dietologo può, ovviamente, elaborare piani alimentari ma può anche prescrivere terapie farmacologiche, esami del sangue o strumentali, utili alla valutazione clinica. 

Infine esiste il dietista, professione sanitaria con laurea triennale in dietistica. Il dietista si occupa dell’elaborazione e del monitoraggio delle diete, destinate a sportivi, persone sane oppure con malattie, là dove la terapia medica prevede la necessità di un intervento dietetico. Il dietista non può elaborare piani alimentari in autonomia ma solo in seguito ad una prescrizione di un medico, necessitando sempre di una sua supervisione. 

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